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La Repubblica: Intervista a Bono e The Edge

Inserito da on ottobre 2 – 14:27 | 1.743 visite

Questa l’intervista uscita quest’oggi sul giornale La Repubblica. Nell’intervista Bono e The Edge svelano alcuni dei loro segreti che tengono nascosti da tempo.

Ecco l’articolo di La Repubblica:

Sono entrambi d’accordo, fu una crisi familiare a far sbandare gli U2. «Eravamo adulti, ma ancora legati come adolescenti. Noi, le nostre donne, il nostro entourage. Tutto stava precipitando», ricorda Bono. «Il divorzio da mia moglie peggiorò lo stato d’animo di tutti. Lei aveva un rapporto fraterno con gli altri del gruppo, un’antica amicizia stava andando a farsi fottere», incalza il chitarrista The Edge.
Poi per un po’ Bono tace. È invecchiato, ha il viso stanco, i capelli tinti di scuro non lo fanno sembrare più giovane, azzimato semmai. Si è caricato sulle spalle il peso del mondo fino a consumarsi, e adesso fisicamente non regge il confronto col chitarrista The Edge che gli siede accanto, più giovane di un anno, in realtà molto più in forma. «Eravamo a un punto morto. A rischio di scioglimento. Non saremmo andati avanti senza trovare la nota giusta», mormora il cantante, 51 anni compiuti lo scorso maggio.

Dunque nel 1991, l’anno in cui nacque Memphis Eve Hewson, l’adorata secondogenita che adesso fa l’attrice (è nel cast di This must be the place, il nuovo film di Sorrentino con Sean Penn), Bono Vox stava per divorziare dagli U2, che da quindici anni erano la famiglia più solida e autorevole del rock. Proprio come una coppia logorata dalla routine: stare insieme non solo era diventato improduttivo ma insopportabile. Il batterista Larry Mullen e il bassista Adam Clayton, sul fronte reazionario, invocavano un ritorno al suono primitivo della band. Bono e The Edge, su quello rivoluzionario, veleggiavano spavaldamente in direzione ignota — meglio eroi che sfidano il futuro che rock star ancorate al passato. Gli U2 sbandarono pericolosamente prima di trovare la soluzione: un album, Achtung Baby, che cambiò il corso della loro carriera; una canzone, One, potente inno transgenerazionale che rese universale il loro messaggio; un trionfale giro del mondo, lo Zoo Tv Tour, che traghettò definitivamente i quattro irlandesi dentro il suono nuovo.

Bono ha promesso e preteso. Oggi non parla di politica. Niente polemiche sulle missioni umanitarie e sulla gestione di un patrimonio che fa arrossire l’attivista che ha a cuore i problemi del Terzo mondo. Questo è un momento di riflessione per gli U2. «È umiliante rendersi conto che stai diventando un cialtrone» dice, gli occhi persi nel vuoto dietro un paio di bizzarri occhiali violacei, ripensando a vent’anni fa.

Ospite del Toronto Film Festival, ha appena rivisto From the sky down, firmato dal documentarista premio Oscar Davis Guggenheim sulla realizzazione di Achtung Baby, il disco che salvò la carriera della band e le diede le motivazioni per affrontare il nuovo millennio. Ha perso un po’ di smalto ma non il carisma. E neppure l’entusiasmo. Mentre sorseggia un cappuccino, Bono ci fa ascoltare il provino di un cd che esce questa settimana allegato al mensile inglese Q con le canzoni di Achtung Baby riproposte da altri artisti. «c***o, cantano tutti meglio di me!», esclama mentre scorrono le versioni di Depeche Mode, Nine Inch Nails e Patti Smith. «Adoro Patti», esplode, «quando uscì Horses ero un sedicenne alla ricerca di stimoli. In una sola strofa — “Dio è morto per i peccati di qualcun altro, non per i miei” — lei me ne diede a sufficienza per aspirare a diventare quel che sono». Riflette: «I grandi gruppi non dovrebbero mai sciogliersi. Mi piacerebbe vedere i Beatles o i Clash al lavoro oggi. Sarebbero grandissimi».

Eppure anche gli U2 hanno corso questo rischio, e proprio nel momento di maggior successo, dopo i 25 milioni di copie vendute di The Joshua Tree e i 14 milioni di Rattle and Hum, l’album stroncato dalla critica Usa. «E a ragione! Fummo presuntuosi e cialtroni. Pretendevamo di insegnare agli americani cosa fosse il blues», riflette oggi Bono. Fu così che, a corto d’idee e in cerca d’ispirazione, si rifugiarono negli studi Hansa di Berlino — una vecchia dance hall nazista — dove Bowie aveva inciso il capolavoro Heroes. È proprio su quell’annus horribilis che indaga From the sky down, film che la Bbc trasmetterà l’8 ottobre e che uscirà in dvd il 31 insieme alla ristampa di Achtung Baby.

Perché un film su quel delicato momento della vostra storia? perché metterne a conoscenza il pubblico? perché adesso?
Bono: «Era giusto guardarsi indietro. Avevamo bisogno di recuperare quello spirito. Niente succede per caso. Questo documentario è un promemoria: il percorso dell’artista è doloroso a volte, soprattutto quando decide di uscire dalla comfort zonee esplorare nuovi territori. Oggi ci troviamo nella stessa situazione di allora. Siamo al punto in cui torniamo a chiederci: la gente ha davvero bisogno di un nuovo cd degli U2? Ne abbiamo fatti tanti, se non c’è una buona ragione per riaffacciarci sul mercato meglio togliere il disturbo».

Dunque le interviste del regista Guggenheim sono state una sorta di percorso analitico.
Bono: «Ci sono state sedute durate ore. Una noia mortale, per noi e per lui. Soprattutto quando ci chiedeva di ricominciare daccapo. Ma così facendo sapeva di riuscire a scavare in profondità, e in effetti emergevano continuamente ricordi che avevamo rimosso. Come quella notte che uscimmo per festeggiare la caduta del Muro. Intorno a noi gente inca***ta che gridava slogan incomprensibili. Solo più tardi ci rendemmo conto che eravamo nel bel mezzo di una manifestazione di neonazi che protestavano in favore del Muro».

Con che spirito arrivaste a Berlino?
Bono: «Eravamo alla frutta».
The Edge: «Pensavamo che lavorare in uno studio che aveva ospitato Bowie e Iggy Pop, con tre produttori come Eno, Flood e Daniel Lanois, sarebbe stato sufficiente a rimotivare la band».
Bono: «… Invece eravamo appena scesi all’inferno».
The Edge: «Il pallone si sgonfiò in meno di una settimana, non c’era una sola idea che decollava, eravamo in una fase di stallo micidiale. Non riuscivamo neanche a litigare».
Bono: «Depressione totale. Litigare fa bene, aiuta le persone a esprimersi, ad argomentare. Il silenzio — quel silenzio — è assai più pericoloso. C’era il gelo fra noi. La temperatura esterna era sotto lo zero, ma all’interno dello studio faceva anche più freddo. Mi sentivo come un calciatore; quanti anni devi avere al massimo per giocare nell’Inter o nel Milan? Trentaquattro? Eravamo arrivati al capolinea?».

Avevate conquistato traguardi invidiabili. Definirsi cialtroni a posteriori sembra esagerato. Che cercavate?
Bono: «Una musica che nessuno avesse mai ascoltato prima — quella era la nostra droga. Lo è sempre stata, lo è ancora. Lo so, avevamo fatto delle cose importanti nel mondo del rock, ma la musica che avevamo suonato fino a quel momento era roba che chiunque altro avrebbe potuto fare e, in molti casi — come in Rattle and Hum— terribilmente déjà-vu. A quel punto la scelta era: o inventiamo un suono nuovo oppure tutti a casa».
The Edge: «Capivamo che per continuare a esistere dovevamo smetterla di indugiare sul passato e iniziare a esplorare il futuro».
Bono: «Stavamo trascurando la sperimentazione, e questo ci tagliava fuori dal movimento artistico che pretendevamo di generare. Mi ricordai di quando, nei primi anni Ottanta, incontrai Bob Dylan. Mi aveva detto: “Guardati indietro, sei di Dublino, conosci le radici della musica irlandese?”. Dylan mi spiazzò. Sapeva che ero un suo fan, si presentò con carta e penna e mi chiese un autografo. Mi lanciò la sfida che io poi passai agli U2: cerca di capire chi sei e da dove vieni. E così, dal 1985 all’88 iniziammo a esplorare le radici del rock’n’roll, trascurando il fatto che eravamo figli dell’Europa…».
The Edge: «…E di Stockhausen. Già con Unforgettable Fire Brian Eno ci aveva guidati verso questo tipo di sensibilità…».
Bono: «… Era stato la nostra guida e Achtung Baby ci riportò tra le sue braccia. Alla fine del Lovetown Tour (gennaio 1990) la domanda più pressante diventò: che musica faremo domani?».

Cosa scongiurò lo scioglimento della band?
Bono: «Pian piano cominciammo a renderci conto di avere qualcosa in mano. In due giorni mettemmo a fuoco e registrammo almeno sei canzoni, dopo settimane, mesi di stasi totale. Il momento chiave fu l’incisione di One e l’arrivo di Brian Eno a Berlino. C’era una tensione pazzesca. The Edge e io eravamo in minoranza. One fu la canzone che mise tutti d’accordo. Quando Eno ascoltò il brano, disse: “Ragazzi, io sono della partita”. E questo sollevò il morale di tutti».

Fu subito evidente che One sarebbe diventato un inno del rock, uno di quei brani che salvano una carriera?
Bono: «Non saprei rispondere. Certo è che Axl Rose mi telefonò e mi disse che non riusciva a smettere di ascoltarla, che lo aveva rappacificato con la sua anima. E lo stesso fa con la mia ogni volta che la canto. È un brano che scaccia i demoni nel momento stesso in cui ne parli, esattamente l’opposto di quelle canzoni che dicono, diamoci la mano e il mondo diventerà un posto migliore. Anzi, vuol dire esattamente il contrario: se facciamo il girotondo il mondo non diventerà un posto migliore. Il senso è: discutere è salutare, lottare fa bene, non dobbiamo per forza essere tutti d’accordo, cantare lo stesso inno. Sono sempre sospettoso sulla retorica pace & amore. c***o, siamo irlandesi, figli del punk. Inseguiamo degli ideali, certamente, ma siamo anche pragmatici e non ci vanno giù certi slogan idioti degli hippies. Oneè la canzone che ci ha permesso di convogliare i nostri ideali punk dentro una melodia contagiosa ».

C’è stato un momento nella storia degli U2 in cui il lavoro di Bono come attivista ha causato stress all’interno della band, perché considerato una distrazione dal processo creativo?
The Edge: «Sì, finché non abbiamo valutato in maniera equilibrata l’apporto della sua mentalità sui temi che le canzoni degli U2 hanno affrontato. Se non fosse stato quel che è, non avremmo avuto Pride (In The Name Of Love). Se non avesse seguito il suo istinto politico, non avrebbe prodotto niente di così efficace in musica e poesia come i brani di The Joshua Tree».

D’altra parte lei non si sarebbe sentito a suo agio nei panni di una rock star se l’impegno non avesse sorretto l’artista.
Bono: «Molti, compreso il nostro manager, ritengono che il nostro lavoro sia quello di denunciare i problemi, non di risolverli. Io la penso diversamente. Lo so, John Lennon ha scritto Imagine, ma per me immaginare non è sufficiente. La mia idea è che i sogni vanno costruiti mattone per mattone. Sapere che One è stata cantata durante le manifestazioni in Sudafrica e in Bosnia, durante i gay pride e nelle chiese battiste, è una grande soddisfazione. Pare che sia anche una delle canzoni più suonate ai matrimoni – avranno letto bene il testo?».

Il rischio dello scioglimento è sempre dietro l’angolo?
Bono: «Non so, vedremo. Per molta gente, molti italiani anche, gli U2 sono diventati una fede, e essere missionario è una responsabilità durissima da gestire. A proposito dell’Italia, Berlusconi è ancora saldo in poppa?».
The Edge lo guarda di traverso, come a dire: «Ci risiamo!». Ma Bono incalza: «Ne ho sentite di tutti i colori su di lui in questi anni. Che si è allevato l’elettorato con le sue televisioni, che i giovani sono rimasti affascinati dall’immagine del self made man che è riuscito ad accumulare una fortuna tale da garantire a se stesso, alla famiglia e al partito privilegi che mortificano la democrazia. Anch’io la pensavo così, ma col tempo ho corretto il mio punto di vista. C’è una ragione precisa che ha determinato la sua inarrestabile ascesa. Berlusconi è il modernista emerso dallo scontro frontale tra la destra e la sinistra, entrambe terrificanti nei loro estremi. E la sinistra, ah la sinistra… da una parte importuna e violenta, dall’altra vittima di una ambigua alleanza con la chiesa e il potere economico… Dunque Berlusconi ha raccolto i voti della vecchia guardia (democristiana) e dei giovani rampanti e dinamici che con spirito imprenditoriale tipicamente italiano guardano al futuro. Ma ormai siamo in un secolo nuovo, in una nuova forma di pensiero, certe ideologie vanno re-immaginate. Quel che manca all’Italia è l’uomo giusto che lo faccia, il Bill Clinton della situazione che pesca quel che c’è di buono da destra e da sinistra. …Dove eravamo rimasti?».

Cosa dovranno fare gli U2 per non sbandare di nuovo?
Bono: «Abbiamo creato grande musica, suonato in spazi enormi. Ora, se vogliamo sopravvivere, dobbiamo tornare agli spazi piccoli, alla piccola musica.”

 

 

 

Fonte: La Repubblica via U2Place.com

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